Intervento su politiche economiche e sociali

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img_3843Alla vigilia del lavoro sulla legge di bilancio credo che occorra fare alcune considerazioni.
La prima riguarda la crescita economica. Negli ultimi quindici anni il nostro Prodotto interno lordo sostanzialmente è cresciuto zero. In questo andamento c’è tutto l’impoverimento del Paese, perché nel frattempo gli altri sono andati avanti. Abbiamo perso 18 punti di Pil rispetto alla Francia, alla Germania, alla Spagna.

E il fatto che malgrado le riforme fatte e annunciate il Paese continui ad essere lentissimo rende questo problema molto complicato.
Non so se Renzi e il gruppo dirigente del Pd se ne rendono conto, perché più dicono “abbiamo fatto tante cose” e più poi bisognerà rispondere alla domanda sulla ragione per la quale malgrado le cose fatte l’Italia stia esattamente dove stava quindi anni fa. Se lo si fa notare si fa una critica sbagliata?

Non solo. Tutta questa polemica sui decimali, a parte il tema del contenzioso con l’Europa, nasconde il punto vero che dobbiamo affrontare oggi, guardando al futuro: se avesse ragione l’ufficio studi della Confindustria, secondo il quale nel 2017 la crescita del Paese sarà pari allo 0,5 per cento, dovremmo prendere atto che l’Italia è cresciuta dello 0,8 per cento nel 2015, dello 0,7-0,8 nel 2016 e che crescerà ancor meno l’anno venturo; cioè dovremmo prendere atto che non siamo di fronte a una lenta ripresa, ma di fronte a una lenta caduta.
Questo fatto farebbe saltare tutta la narrazione che è stata messa in campo. Il che non può essere una consolazione per chi oggi esprime seria preoccupazione. Il punto è la sostanza delle prove che abbiamo di fronte. Se si dice che il 2017 sarà un anno duro, una ragione c’è. Tutti i centri di ricerca e di analisi più accreditati, dal Fondo monetario internazionale alla Banca d’Italia, sostengono che la crescita del commercio mondiale da due anni è al di sotto della crescita del Pil mondiale, a differenza di quello che è avvenuto negli ultimi venti anni. Questo vuol dire che tutta la componente dell’economia italiana che in tutti questi anni ha retto sulle esportazioni, e il cui contributo è stato fondamentale nella crescita del Pil italiano, potrebbe verosimilmente venire meno nel 2017, cioè potrebbe dare un contributo non pari a quello che ha assicurato nel 2015 e nel 2016. E dunque, se noi non dovessimo avere una adeguata crescita delle componenti nazionali, endogene del Pil, è evidente che il Paese andrà indietro.
Ecco il punto: in questo contesto, la qualità della manovra di bilancio che andremo a discutere nelle prossime settimane è decisiva: non bastano le parole, o vengono previsti iniziative e interventi spendibili davvero nel giro di qualche mese, oppure il Paese rischia una ulteriore frenata.
Un’altra considerazione riguarda il Mezzogiorno. Si è detto anche con enfasi che nel 2015 il Sud è cresciuto più del resto del Paese. I dati di quest’anno dicono che la realtà sta andando diversamente. La Regione che è cresciuta di più è l’Emilia Romagna, con l’1-1,2 per cento, mentre il Mezzogiorno sta allo 0,5. Tutto il Nord sta sopra, tranne la Liguria dove c’è una crisi industriale, tutto il Sud sta sotto. Ricordo questi dati perché se l’anno venturo il Pil dovesse crescere solo dello 0,5 per cento, questo 0,5 sarebbe il dato medio con il Nord magari all’uno per cento, ma il Sud allo 0,2 o ancora meno.
Sono queste le questioni vere con le quali ci dobbiamo confrontare. E dobbiamo guardare al fondo dei problemi. Se per esempio confrontiamo le componenti della crescita del Pil italiano con quelle del Pil tedesco, si vede chiaramente la differenza che giustifica un andamento tanto diverso. Questa differenza non riguarda il sistema manifatturiero: naturalmente quello tedesco è più grande in assoluto rispetto a quello italiano, ma il contributo al Pil tedesco dell’industria nazionale è assolutamente analogo a quello dell’apparato produttivo italiano alla nostra economia. Dov’è allora la differenza che fa crescere loro più di noi? In altri campi. Il primo è quello dei servizi: in particolare, servizi finanziari, servizi assicurativi e delle telecomunicazioni. Ma l’altro punto fondamentale che fa la differenza, che ci fa scontare un andamento più lento e sul quale è necessaria una riflessione, è il dato degli investimenti nella sanità, nella scuola………
Dico questo, perché se si vuole passare da una narrazione facile a un progetto che provi a mettere in sequenza le scelte di politica economica e sociale serie, allora bisogna partire da qui.

VVuol dire che se c’è una cosa da fare è non togliere soldi alla sanità. Vuol dire che se c’è un’altra cosa da fare è verificare se si stanno spendendo bene i soldi della “Buona scuola”. Vuol dire mettersi nelle condizioni di fare una politica di investimenti pubblici e privati in grado di avere effetti rapidamente. Vuol dire come sistemare la politica dei bonus per evitare contraddizioni crescenti. Si prendano per esempio gli 80 euro. Intanto è evidente la disuguaglianza di trattamento rispetto alla persona che guadagna dieci euro in meno della soglia di reddito prevista o dieci euro in più della soglia prevista per gli 80 euro. Ma non basta: se non prendiamo gli 80 euro e li sistemiamo in una revisione degli scaglioni e delle aliquote Irpef, andremo presto incontro a situazioni imbarazzanti. Basti pensare al prossimo rinnovo del contratto di lavoro per i dipendenti pubblici. Per centinaia di migliaia di lavoratori, stando così le cose, potrebbe avvenire questo: l’aumento di alcune decine di euro al mese li farebbe uscire dal sistema degli 80 euro, con il risultato clamoroso che con il nuovo contratto gli daresti meno di quanto in realtà gli togli.
Insomma, ci vogliono la consapevolezza della situazione reale del Paese e un progetto complessivo, un’idea generale rispetto alle scelte che fai. Può andar bene per un anno o due prendere iniziative come quella degli 80 euro, ma poi devi decidere come le implementi e le sistemi in un’ottica più generale, nella quale trovino spazio, ragione e convergenza i diversi interventi che vengono messi in campo.