Per il secondo anno consecutivo la festa del lavoro – come pure il 25 Aprile, il giorno della libertà riconquistata – si celebra nel segno della costrizione e della pandemia. Il primo maggio è per definizione e per storia una festa corale, di popolo, di partecipazione a grandi e piccoli eventi. E invece la situazione ci porta a vivere la giornata in modo più ristretto, individuale senza quei simboli, dalle bandiere ai canti del lavoro, che ne hanno sempre segnato lo svolgimento.
Eppure a questa forma si contrappone la sostanza di un momento in cui il lavoro ritorna ad essere centrale, e i diritti di chi lavora, oggetto di una rinnovata sensibilità.
Pensiamo al lavoro pubblico nella sanità, nella scuola, nei servizi alla persona, nella ricerca scientifica. Quel lavoro negletto da tanti, quasi svilito nell immaginario collettivo, spesso precario o sottopagato, oggi è percepito da tutti come il valore più prezioso più utile di cui il paese ha bisogno. E questo non è solo il frutto dello stato di necessità, ma dello sforzo di milioni di persone, della loro abnegazione, della loro competenza. E insieme della centralità del lavoro e del servizio pubblico, dove la logica del solo profitto non è in grado di sostituirne universalità, gratuità, disponibilità.
La stessa cosa su un terreno diverso vale per tanti altri settori e servizi privati. Ai lavoratori dei supermercati, dei trasporti, dei servizi alle famiglie, del commercio e dell’agricoltura si deve tutto quello che di normale e consueto siamo in grado di avere e consumare. In qualche misura la responsabilità pubblica anche per loro è diventata un dovere, un esercizio di disponibilità spesso senza calcoli e senza riserve.
Nell’industria e nel settore dell’edilizia le cose sono andate più tradizionalmente. Ci sono settori industriali che hanno tenuto nella produzione, nelle esportazioni e nei risultati. Altri magari già in difficoltà hanno visto peggiorare la propria situazione con le crisi che non si riesce a risolvere e con le chiusure silenziose. Nel turismo e nella ristorazione il dramma è più evidente e pesante e tutti dobbiamo sentire il dovere di non lasciare soli persone e attività sconvolte da qualcosa che non era né prevedibile é immaginabile.
C’è’ poi la massa di chi ha perso il lavoro – un milione di persone – con tante donne e giovani; i precari sempre più tali, le forme di sfruttamento estremo che si ripetono ma che oggi suscitano più reazione come nel caso dei riders, dei licenziamenti illegittimi, delle condizioni estreme di Amazon o nel caporalato in agricoltura.
Ripensando a tutto forse è giusto dedicare la festa dei lavoratori proprio a loro, agli ultimi degli ultimi, ai tanti per i quali lo sfruttamento significa annullamento di diritti, perdita di libertà e dignità.
Infatti se tutti viviamo la pandemia con trepidazione e spesso dolore, non siamo tutti uguali nel come la attraversiamo e nelle conseguenze che ne derivano per ognuno. Vale per i tanti morti, per le ferite che molti si portano dentro e per chi si ritrova senza speranza senza un lavoro e anche senza un futuro.