Intervista di Umberto De Giovannangeli su Il Riformista del 29 ottobre 2020
La sinistra ai tempi del coronavirus, le sfide decisive e la crisi di un intero sistema politico.
Tredici anni fa nasceva il Partito democratico del quale, per un breve ma intenso periodo, lei è stato segretario nazionale. Quale bilancio trae da questa esperienza?
Prima di fare un bilancio sul senso, sull’azione, sui problemi e anche sulle opportunità che il Partito democratico ha espresso, io credo sia necessaria una riflessione un po’ più generale sul sistema politico italiano. A me sembra evidente che dove ci sono, anche in Europa malgrado le difficoltà del tempo, delle formazioni politiche autentiche, il rapporto tra cittadini e istituzioni, e la stessa democrazia parlamentare sono più forti. Dove invece ci sono partiti in gran parte personali, improvvisati, cangianti, senza radici profonde, senza una cultura politica e vita democratica autentica al loro intero, la democrazia è più debole. Il partito, sia singolarmente che collettivamente, è lo stato di salute della democrazia. E questo va detto con grande chiarezza, perché altrimenti scambiamo le cause con gli effetti e non ci rendiamo conto che il vero problema che abbiamo di fronte è ricostruire un’offerta politica fatta da partiti che abbiano queste caratteristiche. Dico questo perché se guardo la situazione oggi, nel 2020, sia pure di fronte a questa crisi epocale che stiamo attraversando, non riconosco più didue veri partiti, che pure hanno limiti. Gli altri sono tutti nati sulle basi di spinte irrazionali, di tendenze imrpovvisate, di umori profondi ma privi di prospettiva. Nel giudicare la storia del Partito democratico, dobbiamo tenere ben presente questo problema che riguarda il sistema politico italiano. Da questo punto di vista, non c’è un problema che riguarda solo la sinistra, il che non significa disconoscerne minimamente la portata, ma c’è un problema gigantesco che riguarda tutte le aree politiche del Paese.
E dentro questo ragionamento, il Pd?
Il Pd è nato sulla base di una scommessa, l’incontro tra riforimisti storici, soprattutto quelli di ispirazione cattolica e quelli di sinistra nelle sue diverse articolazioni, per traghettare il meglio di quelle esperienze nella formazione politica a carattere maggioritario. Il limite di fondo è esattamente questo: aver posto un’asticella molto alta che però non si è mai raggiunta. Tranne una fase molto transitoria, il Pd, per quanto oggi sia uno dei baluardi del sistema politico e istituzionale, questo obiettivo non l’ha raggiunto.
Su questo giornale, Fausto Bertinotti, aprendo un dibattito molto vivace, ha sostenuto che “solo lo scioglimento del Pd potrebbe aprire a tutti i riformismi e ai riformisti la via di una costituente per un nuovo soggetto politico”. E’ una provocazione intellattuale o è una strada da percorrere?
Intanto voglio dire, conoscendolo ed essendo amico di Fausto da una vita, che questa sua proposta rappresenta comunque un passo in avanti, perché in qualche modo Fausto si era racchiuso dentro un’idea della fine della sinistra, della sinistra sociale, di quella politica, in una valutazione di impossibilità di ricreare uno strumento al servizio delle ragioni dei più deboli, che sono poi le ragioni di un partito della sinistra. Con questa proposta, rompe con questa sua valutazione negativa e prova a costruire, partendo naturalmente dal suo punto di vista, una prospettiva positiva. Di ciò sono anche contento, perché l’idea che tutto sia finito credo sia sbagliata: non è finita la storia con il crollo del muro di Berlino e dell’impero sovietico alla fine degli anni 80, non capisco perché debba finire la storia della sinistra, per quanto una sinistra da rinnovare, rimotivare, rimodellare. D’altro canto, capisco però anche le difficoltà che ci sono. Il fatto di esserci ritrovati in questa situazione impone a tutti una riflessione autocritica. Il Pd sarà pieno di problemi, ha fatto degli errori, non c’è il minimo dubbio, si è alimentato di una cultura tipica del pensiero progressista dei primi anni duemila, che era, come oggi vediamo, sostanzialmente sbagliata, però contemporaneamente sta lì, amministra ancora tante città, importanti regioni, è alla guida del Governo, mentre tutto quello che è nato alla sinistra del Pd – sia su un versante Marxista sia su un versante ecologista – non ha mai saputo coagulare la costruzione di un soggetto in grado di incidere. Le ultime elezioni hanno dimostrato la limitatezza, se non addirittura l’inesistenza, di spazi sia per ciò che si è mosso alla sinistra del Pd che per ciò che si è realizzato, e non penso solo a Italia viva, alla sua destra. Quindi è su questa contraddizione che bisogna indagare. Non possiamo far carico al Pd di errori e responsabilità che hanno altri. Se riconosciamo questi errori e queste responsabilità, e prendiamo atto che hanno impedito di fare quello che pure si immaginava si potesse fare, cioè una formazione politica e più di sinistra ed ecologista a sinistra del Pd, a me pare evidente che sia impossibile ripartire senza il Pd.
Una sinistra che ha assunto responsabilità di Governo può accettare che dentro questa travolgente crisi pandemica Salute e libertà siano in antitesi e che, brutalmente, la scelta per tanta gente sia tra morire di Covid e morire di fame?
E’ una giusta domanda, perché mi ricorda un altro grande dilemma che è stato spartiacque in una fase della storia della sinistra italiana: il rapporto tra uguaglianza e libertà. Oggi è come se rivivessimo questo rapporto, tra pandemia e libertà, con una destra sguaiata che cambia opinione ogni giorno e prova a intestarsi il tema delle libertà, e la sinistra tutta piegata, anche con ragioni, sul terreno della costrizione che la situazione pandemica propone. Io credo che in questo schema occorra ridefinire e mettere in campo una sinistra che ritrovi un rapporto stretto anche con la libertà. E’ una operazione difficilissima, perché la costrizione per un periodo può renderci più sicuri e tutelare la salute dei più deboli. La salute è un bene essenziale come la libertà, non dobbiamo in alcun modo contrapporrle, come giustamente si è cercato in tutti i modi di non contrapporre le ragione dell’economia cone le ragioni della salute delle persone. E’ il tema sul quale lavorare in questi mesi. Ricordo una discussione che facemmo nella CGIL, quando Bruno Trentin lanciò le parole d’ordine della nuova Cgil, la Cgil dei diritti. Discutemmo proprio di come si affrontano e come si dirimono diritti che sono uguali quando sono in realtà scaglionati nel tempo. Come si conciliano i diritti di un pensionato di oggi e il diritto di un giovane di oggi che non avrà la stessa previdenza di chi oggi è pensionato? Oppure il tema del lavoro e della sicurezza, penso all’Ilva di Taranto. Oggi un diritto viene evocato, rivendicato per negarne o comunque in contrapposizione a un altro. È attorno a questo che abbiamo bisogno di più cultura politica, di più ricerca, di più discussione e più elaborazione…
E forse anche di una classe dirigente più autorevole. Tu prima parlavi di Bruno Trentin…
L’assenza di quelle scuole di formazione e esperienza politica che erano i nostri partiti, è un vuoto drammatico. Non abbiamo una selezione della classe dirigente, ma anche politica, così come era in passato. Mi faccia ancora dire, a proposito del rapporto tra partiti e istituzioni, che uno degli errori che è stato fatto è quello di affidarsi ai cosiddetti tecnici. La scelta di partiti politici in grado di scegliere, di selezionare, anche di aprirsi, ha portato alla figura carismatica, alla figura del tecnico. Cosa che è avvenuta solo da noi, perché se guardi in giro per l’Europa questa strana figura non c’è. E ancora adesso quando vedo questa ricerca disperata di queste figure mi dico non abbiamo proprio capito qual è il problema. Perché quando hai un partito reale, vero, anche il rapporto con chi non fa parte della tua storia, ma viene dal mondo delle competenze, delle professioni, avviene su un terreno più importante, in cui cresce il partito e cresce l’esperienza di chi viene da un’altra storia. Non c’è più bisogno del salvatore, perché ci si salva assieme. Soprattutto le classi dirigenti più legate alla borghesia italiana hanno sempre conciato a questa scorciatoia, non rendendosi conto che in realtà non produceva qualcosa di positivo, ti salvava da una crisi finanziaria, come pure è avvenuto, ma non costruiva un sistema più stabile e più forte nel tempo.